De Dominici, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani, 1742-1745
Bernardo De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, in Napoli, nella Stamperia del Ricciardi, 1742-175, III, pp. 692-704.
Si consiglia di consultare l’dizione commentata a cura di Fiorella Sricchia Santoro e Andrea Zezza, Napoli, Paparo, 2003, tomo III, p. 1320-1338 (le note di commento sugli allievi di Solimena si devono a Daniela Campanelli).
«[Notizie de’ discepoli del Solimena]
Francesco de Mura, detto Franceschiello, è un de’ più bravi allievi del Solimena, che gli ha fatto e gli fa moltissimo onore, il quale per mezzi maravigliosi è riuscito quel pittore che il mondo sa e che tuttavia ammira nelle sue bell’opere esposte al pubblico, poicché essendo egli quasi bambino godeva sovente di passare il tempo con alcune figurette di santi, e le quali fatto più grandicello solea copiare con la penna andando a scuola in que’ primi anni della sua puerizia. Era suo maestro un sagretano della chiesa di Sant’Andrea, eretta nel cortile di quella di San Pietro ad Aram, il quale solea insegnare le prime lettere a’ pochi fanciulli che ivi presso abitavano. Or costui prese grandissima avversità a quelle figurette che il fanciullo copiava da quelle picciole immagini alla giornata, ed a tal segno che lo minacciò di bastonarlo se più ardiva di copiarne; alla qual minaccia impaurito il fanciullo si fuggì dalla scuola e per un giorno intiero non si fece vedere, e tutto l’applicò a copiar con la penna (come era solito) un di quei santini che avea appresso di sé. Il padre suo, nominato Pompilio, voleva che Franceschiello avesse inteso le ammonizioni del maestro circa il lasciare il disegnare ed attendere alla lezione, ma non era però così severo che non gli permettesse quell’onesto divertimento, per dare qualche sfogo all’età puerile. Or accadde che trovandolo un sacerdote nominato don Niccolò Battimelli, il quale solea celebrare nella suddetta chiesa di Sant’Andrea, ove il fanciullo solea andare a scuola, gli domandò che cosa faceva e per qual cagione non era andato il giorno innanzi dal maestro, al che con innocente verità gli rispose Franceschiello e gli narrò la minaccia di quello, il suo timore, ed il gran genio che avea in copiare quelle figurette di santi stampate in legno, ed insiememente gli mostrò quello che il giorno innanzi fatto avea con la penna. Si maravigliò quel buon sacerdote di veder così bene imitata con la penna quella figura, e mentre che la stava mirando sopragiunse il maestro e domandò quando l’avesse disegnata, e sentendo che l’avea fatta nel giorno innanzi, in cui non era venuto a scuola, si tacque e finse non curarsene insin che partì il mentovato don Niccolò, e, licenziati tutti gli altri scolari, ritenne con sé Franceschiello, e condottolo in un giardinetto del medesimo luogo, ov’era un pozzo con grossa fune, cominciò a bastonarlo con quella, e perché si accorse che il fanciullo aveva grossezza di panni addosso, a cagion che egli pensando esser bastonato dal maestro più se n’avea vestiti, cingendosi al di sotto con una tovaglia da tavola a doppio, perciò lo fece spogliare e lo bastonò così spietatamente che fece livide tutte le sue tenere carni; sicché il maestro, conoscendo dopo esser molto trascorso e che il fanciullo stava assai malmenato, non volle che andasse a casa, ma lo tenne quella matina con sé, procurando di carezzarlo, ma il dolente figliuolo portatosi a casa la sera diede di sé spettacolo miserabile alla vista de’ genitori, che ad ogni patto vollero sapere per qual cagione fusse stato così mal concio dal suo maestro, ed uditane la cagione molto si adirarono contro la poca umanità del maestro e non vollero che più andasse in quella scuola.
Vedutosi Franceschiello racconsolato da’ genitori, si fece animo e con tale occasione gli pregò che, invece di mandarlo a scuola di lettere, lo mandassero a quella della pittura, alla qual giusta domanda condiscesero quelli volentieri, giacché pareva apertamente che dal Cielo fusse vocato a quella nobil professione, sicché praticando con essi un pittore nominato Felice, il quale era stato scolaro del Simonelli, li consigliò a mandarlo alla scuola del cavalier Domenico Viola, di cui abbiamo fatto menzione nella Vita di Andrea Vaccaro ed in quella del Cavalier Calabrese, e di comun consenso lo menò egli stesso dal Viola, dal quale fu con amorevolezza raccolto, e l’amò a tal segno in appresso che non sapea vivere senza del suo diletto Francischiello, anzicché udita raccontare la barbarie usata dal maestro di lettere si accese di tanta collera che voleva andare a caricarlo almeno d’ingiurie, tuttocché fusse da più d’un mese succeduto tal fatto.
[Franceschiello è introdotto a scuola del Solimena ove fa gran progresso.]
Circa un anno, o poco più, si trattenne dal Viola il nostro bene incaminato fanciullo, istradato con tutta carità nelli principii del disegno; dopo del qual spazio di tempo venne a morte quel buon uomo, per la qual cosa avendo udito suo padre più volte decantare il valore dell’opere di Francesco Solimena, e vedendo la grande anzietà del figliuolo di avere un tanto rinomato maestro, ebbe modo col mezzo di un suo conoscente d’introdurlo in quella famosa scuola del perfetto operare, che fu circa l’anno 1708 e dell’età sua appena nove compiuti. Con la direzione adunque di sì egregio maestro quali progressi facesse Franceschiello si conobbe in poco tempo, considerandosi il naturale inchinato alla pittura, l’abilità insin da’ primi anni suoi, e l’ottima direzione sortita; laonde basterà il dir solamente che in meno di due anni copiava le opere del Solimena dipinte, e fu maraviglia il vedere un fanciullo che di poco passava gli anni dieci copiare una mezza figura d’una Beata Vergine col Bambino e san Giovannino senza dare nel secco, ed unir bene le tinte con pastosità e dolcezza, avendo adempito alla parte del disegno, e massimamente nelle mani che son ben disegnate e ben dipinte. Lo stesso Solimena ne gioiva nel vedere i disegni del suo novello discepolo sì ben condotti con pulizia e morbidezza, senza que’ tagli ne’ quali inciampano per lo più i scolari nel copiare le pitture in disegno.
[Lodi di Giustino Lombardo e suoi motti, e caso avvenuto con Franceschiello nel racconciarli una sua pittura.]
Era in quel tempo ammirato in quella famosa scuola Giustino Lombardo per i maravigliosi disegni ch’egli faceva, maneggiando il lapis con esatta correzion di contorni, con inarrivabile pulizia, e somma diligenza nel condurre istorie di gran componimenti; ed i suoi disegni erano venuti in tal pregio che appena compiuti faceano a gara molte persone dilettanti per comperarli. Questo cercava il nostro Franceschiello d’imitare nel bel modo di disegnare, e molti disegni fece che a quei di Giustino non solo si accostavano nell’imitazione del maneggio e pulizia della matita, ma che parean disegnati da lui medesimo. Ma il Lombardo, vedendo poi dipingere il figliuolo, cominciò a motteggiarlo (essendo di natura mottegevole) e diceva in aria: «Quanti pittorelli che dipingono!» e altri simili motti, a’ quali non badando, Franceschiello seguitò a dipingere ed a studiare con assidua ed indefessa applicazione, unito all’amore che avea alla professione che cercava apprendere perfettamente. Sicché arrivò in poco spazio di tempo a far delle copie così bene imitate che tutti ne rimanevano maravigliati, rispetto alla poca età ed al poco tempo ch’era venuto a scuola, ciò diede alcun impulso a Giustino di dipingere alcuna cosa ancor egli, fidato al fondamento maggiore del disegno ch’ei possedeva, ma nel voler dipingere una mezza figura della Beata Vergine si vide in un mare di confusione per la difficoltà dell’operare il colore, esperimentando a pruova esser diverso il maneggiare il toccalapis del pennello, poiché badando alle tinte era uscito anche da’ contorni; per la qual cosa, conoscendo che la felicità del dipingere in Franceschiello era dono del Cielo, lo richiese che gli racconciasse quella mezza figura, e così da chi gli pareva un fanciullo principiante, e che aveva deriso col motteggiarlo, vide rimessa in contorni e ben colorita la sua mezza figura, e condotta a fine felicemente ciocché egli con tanta infelicità avea incominciato, e ciò non senza sua maraviglia e forse interna mortificazione.
Avanzatosi adunque a gran passi il nostro giovanetto, copiò in età di 17 anni un san Michele arcangelo che scaccia Lucifero con suoi seguaci dal Paradiso per l’abate Zola, maestro di cerimonie del cardinal Francesco Pignatelli, e perché riuscì la copia perfettamente imitata dall’originale del Solimena, vi s’ingannarono due professori forestieri che la videro, giudicandola per l’originale. Anzicché lo stesso Solimena vedendola molto la commendò al mentovato abate, ma perché costui voleva con prezzo tenue rimunerare il giovanetto, ne sentiva pena, raccontando il caso egli medesimo ad un galantuomo, nommato don Niccolò Mariano, il quale proferse onorata ricompenza di quella copia, la quale, perché vi s’interposero varii amici, apportando varie ragioni per venire in aggiustamento, venne poi in mano dello stesso abate Zola, più in modo di cortesia che per condegno onorario.
La prima opera che Franceschiello espose al pubblico, essendo nella suddetta età di 17 anni, fu un Cristo morto in Croce con san Giovanni a piè della Croce, che si vede oggi giorno sopra la porta al di dentro la chiesa di San Girolamo delle Monache, dove si può vedere l’ardire e lo spirito d’un giovanetto principiante, così lo dimostrò in alcune immagini di santi dipinti a fresco in mezze figure ne’ cantoni della nuova casa di don Bartolomeo di Majo, alla strada dopo de’ Scalzi di Sant’Agostino, e delle quali ne fu lodato in riguardo di sua giovanile età. Nell’arco della cappella di San Nicola alla Carità fece i due laterali, ove effigiò due miracoli di quel gran santo. Indi nella cappella medesima dipinse la cupoletta, ove espresse varii infermi guariti per l’intercessioni del santo vescovo. Quasi nel medesimo tempo dipinse cinque quadri grandi per il Duomo di Capoa, li quali rappresentano, uno Tobiuolo con l’angelo, l’altro san Tommaso d’Aquino, altro san Priscopo, altro santa Giustina, e l’ultimo un altro santo. Dipinse dopo le belle Virtù che sono intorno alla nave della chiesa di Donna Romita tra i finestroni, e sopra il coro ch’è su la porta dipinse il bel quadro dell’Adorazione de’ santi Maggi con bel componimento, e dipinto con tal magia di colori che parvero queste pitture di mano del suo maestro agli occhi de’ riguardanti. Tutte queste pitture sono dipinte ad olio, ma operata a fresco è l’altra Adorazione de’ stessi santi Maggi, che si vede nella lunetta sopra l’altar maggiore della chiesa nominata la Nunziatella, noviziato de’ padri gesuiti. Dipinse dopo la cupola della mentovata chiesa di San Nicola alla Carità, nella quale rappresentò il santo portato alla gloria del Paradiso, e di parte in parte vi sono bellissime figure e bene ideate di sotto in su, e tra’ finestroni di detta cupola effigiò Dottori di Santa Chiesa, non tutti di un carattere, essendovi alcune figure deboli; ad ogni modo pur n’ebbe l’applauso del pubblico.
Dipinse nella chiesa di Santa Restituta intorno alla nave di essa i dodici Apostoli in mezze figure in altrettanti tondi, e nell’arco di fronte effigiò il Salvatore e la Beata Vergine, pitture molto lodate de’ suoi pennelli.
Udita da’ monaci di Monte Casino la fama delle pitture di Francesco de Mura, vollero che dal suo pennello fussero adornati tutti que’ sacri luoghi, sì della chiesa che del monistero, che non eran dipinti, che però chiamatolo in quel santo luogo varie opere gli fecero dipingere, ma le maggiori sono nelle due cappelle laterali all’altar maggiore, una dedicata alla Santissima Nunziata e l’altra alla medesima Vergine Addolorata, ed in esse vi ha dipinto ad olio le soffitte con i misteri alludenti alle suddette. Così vedesi in quel luogo dipinta eziandio la cappella di san Gregorio con due quadri laterali ad olio e la volta a fresco. Così la cappella di san Bertario, ove sono effigiate azioni del detto santo. Nella cappella di Carlo Manna fece il quadro col santo da situarsi nell’altare di essa cappella. In quella di san Michele arcangelo vi dipinse a fresco nella volta il Sogno di Giacob. Sopra la porta della sagrestia, alla porta del Capitolo, e alle due porte picciole fece il nostro pittore quadri ad olio con varie istorie
allusive a quel sagro luogo. Nel suddetto Capitolo vi son quattro quadri, uno rappresentante il Giudizio di Salomone, l’altro Rebecca al pozzo col servo di Abramo l’altro è la Samaritana, e il quarto è Cristo che vede la moneta con l’impronto di Cesare.
Tornato a Napoli, Francesco fu richiesto da’ padri della nostra certosa di San Martino che dovesse dipingere il gran quadro che si vede nel capo della stanza del Capitolo, ove è effigiato Nostro Signore in età di dodici anni che nel tempio sta disputando con i dottori, scribbi, e farisei, ed è quest’opera una delle più belle che ha dipinto il nostro Francesco, sì per l’ottimo componimento, sì per la bellezza e nobiltà del colorito, che con dolce armonia fa un accordo mirabile del tutto insieme, parte difficilissima della pittura tanto ben posseduta da questo studioso pittore. Nella chiesa di Santo Spirito di Palazzo dipinse due lunette, nella cappella dedicata a san Domenico, ed in esse rappresentò il santo ristorato dalla Beata Vergine col suo purissimo latte, e la morte di esso assistito da’ suoi monaci, nella soffitta è san Domenico in gloria e ne’ cantoni puttini con geroglifici del santo. Nella cappella di san Vincenzo Ferrerio vedesi nel muro laterale un quadro ov’è dipinta la Beata Vergine col Bambino che apparisce a san Pio V e a san Vincenzo, che sta inginocchioni, opera lodata de’ suoi pennelli.
Era la chiesa di San Severino rimasa notabilmente offesa da’ tremuoti e lesionata la volta della nave a tal segno che non era stato bastante niun riparo fatto da più architetti a far sì che le pitture di Belisario non avessero a perire, locché sommamente dispiaceva a’ monaci il doverle perdere, per la stima che ne faceano tanti nostri scrittori che l’aveano encomiate ne’ loro libri. Ma vedendo che non poteano fare a meno di non buttarle a terra e rifar di nuovo la volta, dopo proposto più soggetti, giacché non poteano averla dipinta dal Solimena, perché era assai avanzato in età, vennero consigliati a non appartarsi dal nostro Francesco, il quale non solo gli averebbe appagati con sue pitture, e compensate quelle perdute di Belisario, ma di gran lunga superate tutte quelle rimaste di tal pittore. Data dunque l’opera a Francesco, ed appena bozzata solamente una parte del quadro, che si videro dissingannati di lor credenza, vedendo la differenza dell’une e l’altre pitture, ammirandosi in quelle di Francesco l’idea nobile, che non avea Belisario, il vero modo insegnatoli dal Solimena di componere istorie, e la bellezza e freschezza del colorito, che resta maravigliosamente accordato nel tutto assieme. Ma che? I monaci istessi, divenuti impazienti di vederla finita e di godersi terminata una così bell’opera, fecero premurose istanze al nostro pittore di ritornar quanto prima da Monte Casino, ov’era andato a dipingere l’opere dette innanzi, o pure a dar compimento a quelle ivi incominciate, ma appena fu ritornato Francesco, che ebbe a dipingere per real comandamento i gabinetti laterali all’alcova dipinta dal celebre suo maestro; laonde fu d’uopo che quei reverendi padri aspettassero insin che fusser compiute le pitture del Palagio Reale, ove ne’ mentovati gabinetti rappresentò in uno la Pace che stando assisa su le nubbi, con altre figure di accompagnamento, fa abbrugiare l’insegne ed altri attrezzi militari dall’Abbondanza, ch’è situata principale in bella e pittoresca azione, e nell’altro gabinetto vedesi situato innanzi il Sebeto, con le Sirene che fanno oblazione di se stesse a Cerere figurata per l’Abbondanza, dapoicché vi è figurato un amorino in atto di scherzare col suo cornocopio, e dall’altro lato altro amorino tiene il serto d’Imeneo. Nel gabinetto sopra l’alcova vi dipinse quattro quadri di palmi sedici l’uno, ne’ quali rappresentò le 4 Stagioni con belli episodii poetici e pittoreschi. Dovendo poi succedere lo sponsalizio del re nostro signore, con la principessa Maria Amalia di Polonia, fu incaricato Francesco a dipingere la soffitta della seconda anticamera, ond’egli formatone il disegno e la macchia, dipinse con mirabile sollecitudine il quadro ad olio, non essendovi il tempo bisognevole per dipingerlo a fresco, a cagion de’ molti giorni che richiede la calcina per asciugare i colori. Rappresenta questa pittura il Genio reale, che, appoggiato all’impresa del re Carlo di Borbone, accenna le Virtù che son proprie di quel signore, unite alle quali vedesi la Pace appoggiata ad un tronco d’oliva, che tiene sotto di sé armi e bandiere domate, nel mentrecché Imeneo con la sua face discaccia il Furore e la Malignità. Accanto al suddetto Genio è situata una delle tre Grazie, intesa anche per altro genio, poiché anch’ella tien l’impresa della reina, alla quale fan corteggio la Fedeltà, la Prudenza, ed il Valore, con altre belle figure che rendon copioso il componimento, e della qual
pittura n’ebbe le meritate laudi. Come altresì furon lodati li 4 quadri ch’ei fece in mezzo agli ornamenti della mentovata soffitta, ove rappresentò le 4 parti del mondo, con belle mosse ed eruditi componimenti degli loro attributi, e secondo conviene alla regione, e le quali figure ornate con puttini di chiaroscuro furon sommamente piacciute e lodate da ogni persona, e fin da’ nostri clementissimi regnanti furono encomiate.
Molto si accrebbero i vanti di Francesco allora che si vide compiuta la soffitta di San Severino, che tirò a sé tutti gli occhi de’ nostri cittadini, e per molti giorni durò il concorso delle persone e le lodi all’artefice di sì belle pitture.
[Opere nella chiesa di San Severino, loro descrizione.]
Vedesi in queste nel gran quadro di mezzo ch’è di palmi 65 effigiata la beatifica visione ch’ebbe il padre san Benedetto nel mirare senza alcun velo l’Essenza Divina, con tutte quelle religioni che avevan da militare sotto la sua regola santa. In due altri quadri di 40 palmi per ciascheduno, situati un da capo e un da piedi al già descritto di mezzo, rappresentò in uno il re Totila che visita san Benedetto con grandissimo accompagnamento e con bella gloria al di sopra, e nell’altro è il santo padre che riceve alla sua religione li santi fanciulli Placido e Mauro, condotti da’ loro padri in quel santo luogo, con magnifico componimento di più figure che lo rendono maestoso, e decorosa la storia che rappresenta. Nelle centine della istessa volta vi sono sei quadri a tre per parte, ed in essi quello ch’è situato nel mezzo è circa 30 palmi, in un de’ quali è il miracolo della scaturigine dell’acqua viva in soccorso del popolo operato da Dio a preghiere del santo padre, ed in questo quadro l’idea è molto bella, essendovi belle figure, massimamente di donne che sono graziosissime; ma in questo apparisce una cosa spiacevole, ed è che il sasso ed una nuvola che l’è dipinta dietro hanno quasi la stessa tinta gialla, che non fa bell’accordo con maestrevole contraposto di chiaroscuro, che però agli occhi degl’intendenti non si rende in tutto compiuto, tuttocché abbia belle figure, come è detto di sopra. Il compagno di questo rappresenta quando il santo predicò a’ popoli di Monte Casino e fece cadere gl’idoli col suono della divina parola; ed in questo quadro vi sono delle figure bellissime ed espressive. Negli altri 4 quadri vedesi in uno il miracoloso soccorso del grano, venuto in tempo che ne avea gran penuria il monastero. Altro è quando essendo ancor fanciullo torna intero il crivello di creta rotto dalla nutrice. In altro è il santo padre che ordina al corbo di prendere il pane e portarlo, acciocché non sia mangiato da alcuno, e il corbo sta in atto ritroso, perché il pane era avvelenato dal maligno prete, che si vede sbigottire all’atto ripugnante del corbo. Altro è la cucina incendiata dal demonio, e soccorsa e liberata dal santo padre con la sola sua benedizione, alla quale virtù fugge il demonio. Allato al finestrone vi sono le figure di san Sossio e san Severino, dipinte ne’ spicoli laterali, e fra i descritti quadri vi sono alcuni squarci, ove vi ha dipinto Francesco angeloni e puttini con varii geroglifici del santo padre.
[Francesco fu richiesto dal re di Sardegna al re di Napoli, e sua partenza per Turino.]
Terminata quest’opera incominciò quella non men grande della cupola di san Giuseppe detto de’ Ruffi, per tal famiglia che eresse la chiesa e ’l monistero per nobilissime dame, ove al solito modo delle cupole dipinse il Paradiso con santi e sante, e varii angeloni con bella gloria che portano avanti la Santissima Triade il glorioso patriarca Giusepp, ma nel mentre che stava per terminarla gli sopragiunse l’impegno del re di Sardegna, il quale voleva che in tutti i modi andasse a dipingere a Turino varie stanze del suo reale palazzo. Non si poté Francesco risolvere così presto ad accettar tale invito, trattenuto dal nostro clementissimo re Carlo, che altre opere pensava fargli dipingere; la qual cosa penetrata dal re di Sardegna, ne scrisse lettera al re di Napoli e di Sicilia, cercandoli con premurose istanze il compiacimento di lasciar partire per quella volta il nostro pittore, come fu fatto per compiacere a quel re. Non si descrivono in questo luogo gli accoglimenti e gli onori che ricevé da quel principe e, tutto che fusse giunto allora quando eransi celebrate l’esequie della reina sua consorte, pure lo ricevé il secondo giorno dopo il suo arrivo, dicendogli che, sebbene egli arrivava nel colmo delle sue disgrazie, ad ogni modo aveva assai cara la sua venuta; ed in testimonianza di ciò, lo portò vedendo il reale appartamento e le pitture che l’adornavano. Indi gli suggerì i pensieri di ciocché doveva dipingere in quelle stanze destinate al suo virtuoso pennello.
[Descrizione dell’opere dipinte a Turino.]
Rappresentò Francesco nella prima stanza in una facciata della volta la bella Teti, dea del mare, che, preso per la mano il suo figliuolo Achille, lo toglie dall’educazione di Chirone centauro e lo conduce a
suo carro, che dall’altro capo si vede con ischerzo di vezzosi amorini esser nel mare, veggendosi intorno e negli altri lati altre azioni di Achille, come allorché essendo giovanetto ode il suono della rusticale sampogna ed apprende la musica e l’astrologia dopo insegnateli da Chirone. Indi per addestrarsi a’ perigli ed all’armi combatte con le fiere e con i leoni, e in queste istorie vi sono belle idee di favolose figure con nobili e graziose azioni, e bizzarre mosse.
Effigiò nella seconda stanza azioni della vita di Achille, rappresentando in una parte della volta il bel garzone che in abito femminile non mira le varie foggia degli abbigliamenti e delle donnesche gale, ma, al veder la spada, pone la mano su quella, per la quale azione vien conosciuto da Ulisse, e condotto poscia alla guerra trojana. Nella parte opposta vedesi il re Piteo che assiso mira la danza delle baccanti, e ne’ capi di detta volta sono figure che accompagnano le principali azioni; come son coloro che portano alla nave varie robbe che precedono la partenza di Achille, e veggonsi in altra parte i varii doni che presentano al mentovato re Piteo, essendovi ne’ cantoni varie altre figure di chiaroscuro con vasi e altri ornamenti, per abbellimento dell’istorie. E perché nel mezzo della volta vi restava troppo spazio, vi dipinse il carro di Giunone tirato da’ pavoni, con la dea mentovata sopra di esso e varie figure che li fanno corteggio, laonde viene l’opera ad esser ricca di concettose figure ben ideate.
Nella terza stanza rappresentò i varii giochi che si facevano nelle Olimpiadi, ed ove sono bellissime figure che fanno varie azioni secondo il giuoco che rappresentano, e medesimamente ne’ cantoni fece capricciosi e belli ornamenti innestati di figure di chiaroscuro che figuravano le favolose sfingi; e in altra stanza figurò il Sagrificio di Teseo prima di andare in Colco alla conquista del vello d’oro, e da un capo vedesi dalla città venir altre genti a portar spiche ed altre cose appartenenti al sagrificio suddetto, che si fa avanti la statua del dio Nettuno. Dalla parte opposta vedonsi abbattuti i ladri che infestavano la campagna, e nell’altro capo quando il figliuolo di Teseo svelle il sasso, secondo il precetto paterno, e dalla madre è inviato a ritrovar suo padre.
In una grandissima stanza rappresentò di nuovo le Storie del re Teseo, e nella parte più grande vedesi il re Egeo con seguito di cortegiani e Teseo in atto di prender congedo dal padre per andar incontro al Minotauro, e dalla parte opposta si scorge la nave apparecchiata per la spedizione di Creta, in cui sono trenta remi, e si veggono salirvi su gioventù guerriera, alla quale fa contraposto la tenerezza de’ genitori che l’accompagnano al porto ed alla nave. Più tenera è l’azione di alcune madri che teneramente si stringono i cari figli nell’atto della partenza, e dall’altro capo sono abitanti del paese che stanno a vedere la partenza di quella nave. Nelli cantoni di questa stanza vi sono altresì bellissimi ornamenti intrecciati con statue di chiaroscuro, così belle e ben disegnate che ponno servir di esempio alla gioventù studiosa della pittura; come da colà vien riferito.
Fece per lo stesso sovrano cinque ritratti, tre delle tre principesse, uno del re, e uno del duca di Savoja suo primogenito, che, per la somiglianza e la maestria con che furon dipinti, furon molto graditi e lodati da quel regnante e da tutta la corte. Molte altre opere avrebbe seguitato a dipingere, se non fussero state interrotte dalle turbolenze che insorsero della presente guerra; laonde quel principe chiamato a sé Francesco gli disse queste parole: «La guerra ci ha impedito il nostro travaglio, dipingete però per adesso questi cinque quadri nella vostra patria, che appresso pensaremo ad altro», e con ciò gli ordinò cinque quadri d’una determinata misura, ne’ quali rappresentar si dovesse l’Educazione, l’Amor materno, la Forza, la Nobiltà, e la Magnanimità; le quali in oggi veggonsi compiute in casa del nostro pittore per doverle trasmettere ad ogni ordine di quel reparto. Di quanta bellezza siano queste figure può immaginarlo chi conosce il valore di Francesco de Mura, e chi sa le nobili idee con le quali ha sì bene imitata la maniera del suo maestro.
Se in questo luogo volessi descrivere gli onori ricevuti da quel sovrano nel mentre che si trattenne nella sua corte, molto più che non richiede questa narrazione mi bisognerebbe allungare le sue notizie; laonde per non defraudare il lettore di sì curiosa particolarità, e ’l suo merito degli onori acquistati, dirò in succinto che oltre a’ molti segni di benevolenza che da quel re gli furon dimostrati, e molti segni di stima con distintissimi onori, fece invitar da una dama di corte la sua moglie donna Anna, per sollevarla alquanto da alcuna sua indisposizione, e dopo un lauto desinare, menandola seco in carozza a divertimento fuori della città in amena campagna, ove trovarono il re che umanamente l’accolse, e la trattò con indicibil benignità, avendo avuto il piacere di vedere la moglie del suo virtuoso de Mura. Molti simili trattamenti si potrebbero annoverare che la bontà di quel re fece in riguardo della di lui virtù, ma tralasciandoli tutti, mi ristringerò solamente a quello dell’invito della caccia del cervo.
[Francesco fu convitato alla caccia del cervo dal re di Sardegna, e onori ricevuti da quel sovrano.]
Domandò dunque il re un giorno a Francesco se mai avea veduto cacciare i cervi, ed udito che giammai non l’avea veduto lo convitò, ma che si ritrovasse prossimo alla morte di quello animale. Arrivati nella campagna, ove fu condotto Francesco con una carozza di corte, si ritrovò nel casino (che colà vien nominato Stupinicci) allestita una lauta mensa, ove il re presa la salvietta così all’impiedi, dapoiché non volle sedere alla sedia preparata per lui, e col tondino in mano andò ove era Francesco, e gli disse che fusse andato a prendere un boccone, perché poi doveasi incamminare alla caccia, ed ubidendo egli a’ reali comandamenti fu menato nell’altra stanza da molti signori, ove alla mensa gli fu apparecchiata una sedia; ma egli con la solita sua modestia, così all’impiedi, come erano gli altri commensali, si ristorò con una brieve colazione, ed indi seguitando la caccia tanto si galoppò che si trovò alla morte del cervo, il quale diviso poi per mezzo, ne furon troncati i piedi, e presentata la zampa diritta d’avanti al re, com’è il costume, e la quale egli fece presentare a Francesco per distintissimo onore, dandogli con ciò a divedere che, secondo l’usanza, la caccia era stata ordinata ad onor suo, perciocché a chi quella zampa ei regala, che sono per lo più gran personaggi, a quello s’intende consecrato l’onore di quella caccia. E tanto basti per notizia degli onori ricevuti dal re di Sardegna, da cui ha avuto degna e ricca ricompensa di sue virtuose fatiche.
Con grandissimo contento degli amatori della pittura fu inteso l’arrivo in Napoli del nostro Francesco, ed a gara concorsero i cari amici a visitarlo; ma il contento maggiore fu delle nobili monache di san Giuseppe de’ Ruffi, pel gran desiderio che avevano di veder terminata la cupola di loro chiesa e, fattogli premurosi impegni, videro in pochi giorni terminato sì gran lavoro ch’egli (come si disse) avea lasciato imperfetto di poche ritoccature, ed al suo solito ne fu lodato da ogni ceto di persone, ma più dall’intelligenti dell’arte pittorica, laonde ne restarono appagate quelle dame di aver opera sì perfetta, giacché aveano nella medesima chiesa altro suo quadro, dipinto nel primo anno che uscito di scuola si ritirò a dipingere nella sua propria casa.
Molto ci vorrebbe per annoverare le opere che questo virtuoso scolaro del Solimena ha fatto per molti particolari così nobili che civili, ed i molti che dipinge per i dilettanti, ed eziandio ha fatto molti ritratti, essendo in tal parte singolarissimo, anzi che alcuni suoi ritratti sono stati creduti di mano del suo maestro; per la qual cosa accenneremo solamente che ha avuto la bella sorte di mandare un suo quadretto rappresentante la Nascita del Signore nella medesima chiesa di Betlemme, ove nacque lo stesso Giesù, e adornar con quello il medesimo luogo della mangiatoja ove esso fu esposto all’adorazione de’ pastori. Così nella chiesa di Gerusalemme ha mandato 22 quadri di grandezza in circa di otto palmi l’uno, i quali rappresentano varie istorie della vita e Passione di Nostro Signore e della vita della Beata Vergine. Nella città di Lecce vi sono state trasportate sue opere, e se ne sono trasmesse a Castel di Sangro ed a Foggia. Ma più ne sono andate in paesi stranieri, e massimamente nell’Inghilterra, ove è tenuta in sommo pregio la sua maniera, per esser tanto consimile a quella del suo maestro, il quale in sommo grado da questa nazione è stimato. E però viene amato il nostro Francesco dal medesimo Solimena, ed è stimato da lui più di tutti i suoi scolari, per avere sì esattamente imitata la sua maniera, anzi il più bello e scelto di quella, per la quale viene applaudita da tutti; laddove molti che si han voluto scostare da quella, e mutar maniera, più tosto han bassato che inalzato o migliorato lo stile, perdendo la bella tinta del lor comun maestro. Come dunque chi scrisse alcune notizie de’ nostri professori per aggiungerle nell’Abecedario Pittorico dice che Francesco avea variato maniera ed indurito lo stile, e tante cose vane per farlo apparir da nulla, se il medesimo Solimena suo maestro ebbe a dirmi nel mostrarmi le copie delle quattro parti del mondo fatte da Francesco: “Vedi come fa bene Franceschiello! Vedi come mi ha saputo bene imitare anche nel svoltare il pennello nelle pieghe de’ panni come fo io, cosa che questi altri non hanno fatto” e molte altre parole poi soggiunse in sua lode. Sicché dunque bisogna conchiudere che colui che scrisse o a ciò fu portato da sciocchezza, o a ciò fu spinto da maligno livore, insinuatogli da maligni ed invidiosi, giacché cercavan ferirlo nella stima oltre di ciò che è professione. Ma gracchino pure costoro, che nulla importa a Francesco, poiché ha avuto ed ha tanti onori, che è molto e molto più di qualunque cosa essi si dicano, e felicemente attende tuttavia con la sua bella pace ad adornare con l’opere del suo pennello e le chiese della sua patria, e le case de’ nobili dilettanti suoi concittadini.»