Aurora e Titone
1763
olio su tela, cm 97 x 182
provenienza: Napoli, eredità Francesco De Mura (1782) inv. Spadetta 1782: s.n.; inv. Palumbo 1782: s.n.; inv. [Venuto 1783?]: s.n.; inv. Fischetti, Bardellino I 1783: 5; inv. Fischetti, Bardellino II 1783: 5; inv. Diana 1802: 118; inv. La Volpe, Guerra 1845: 118; inv. Simonetti 1851: s.n.; inv. 2009-2010: 77; scheda OA: 15/00409901
Aurora e Titone
1763
olio su tela, cm 94 x 184
provenienza: Napoli, eredità Francesco De Mura (1782) inv. Spadetta 1782: s.n.; inv. Palumbo 1782: s.n.; inv. [Venuto 1783?]: s.n.; inv. Fischetti, Bardellino I 1783: 6; inv. Fischetti, Bardellino II 1783: 6; inv. Diana 1802: 119; inv. La Volpe, Guerra 1845: 119; inv. Simonetti 1851: s.n.; inv. 2009-2010: 76; scheda OA: 15/00409900
Questi due bozzetti – in redazioni finemente differenziate – sono relativi all’affresco già nella volta di una delle stanze che formavano l’appartamento di Ferdinando IV di Borbone nel Palazzo Reale di Napoli, riallestito e in parte affrescato ex novo durante gli anni Sessanta del Settecento, per accogliere il giovane sovrano in prospettiva del conseguimento della maggiore età e delle nozze. Ci si riferisce alla stanza destinata alla vestizione del re, già usata a tal scopo da suo padre Carlo (più tardi e attualmente nota come Sala di Maria Cristina). Prima nell’infilata di camere personali, essa era conosciuta altresì come Stanza dell’Aurora, proprio dalla pittura di De Mura, ed esiste tuttora (per una ricostruzione degli appartamenti settecenteschi: Fiadino 2003, Ascione 2013; per le decorazioni, in gran parte perdute, sono fondamentali Bologna 1979, D’Alessio 1993, D’Alessio 1997, D’Alconzo 1999a). Invece l’affresco, sopravvissuto ai restauri ottocenteschi di Gaetano Genovese (effettuati dopo il 1837), e persino ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, è andato perduto per cause inopinate e (se si vuol) ancor più deprecabili, cancellato cioè da maldestri lavori svolti nell’edificio occupato dagli Alleati. Sicché non vi smette di risuonare l’eco delle parole, ferite e insieme ferme, di Bruno Molajoli, l’allora soprintendente alle Gallerie e ai Monumenti della Campania, il quale onorò il suo ufficio protestando con quelle autorità militari per abusi di tal fatta, nella speranza di scongiurarne altri (erano il marzo e il maggio del 1944: Molajoli 1948; cfr. Causa 1970; D’Alconzo 1999a). Dopo qualche timida speranza, espressa da qualcuno, di poter recuperare (almeno in parte) l’affresco originale sotto la scialbatura, più di recente Gina Carla Ascione (2013) ha escluso la possibilità di un pur minimo rinvenimento, dando l’opera perduta nell’ultimo conflitto “a causa delle bombe incendiarie che danneggiarono l’ala sud del Palazzo”. Ma questa conclusione, stranamente, non sembra tener conto della preziosa testimonianza oculare di Molajoli, né di resoconti attuali sul tema (Porzio 2010).
Negli inventari demuriani al Pio Monte il soggetto di Aurora e Titone compare in vari punti. Uno di essi è relativo a un quadro, originariamente en pendant con una Diana ed Endimione, alienati entrambi nel 1845 (Gazzara 2008b). Un’altra versione, acquistata dalla collezione del marchese Targiani nel 1811 e oggi appartenente alle raccolte di Capodimonte, è stata esposta di recente alla mostra In the Light of Naples 2016.
I dipinti in esame sono da identificare coi due “sopraporti”, di misure pressoché uguali, uno dei quali è detto “la macchia del Palazzo Reale”, menzionati a cominciare dall’inventario Spadetta (1782). La specifica inventariale di sovrapporta deve riferirsi non alla funzione originaria dei quadri, bensì, come sembra probabile, all’uso che se ne fece, o alla parvenza che se ne ebbe, nell’abitazione del pittore, dov’era disposta la sua ‘collezione’, di cui dà conto appunto l’elenco di Spadetta. In tale contesto dové essere soprattutto il formato orizzontale a conferire alle opere un aspetto più da brani d’arredo, per lo scopo suddetto, che da quadri puri, da ‘galleria’. Raffaello Causa (1970) rettificò l’identificazione solo parziale dei pezzi da parte di Giuseppe Ceci (1933c). Ma la conoscenza di vari ambienti di Palazzo Reale (alcuni dei quali non più esistenti) era ancor difettosa, tanto che la stanza che ospitava l’Aurora nel soffitto era ritenuta erroneamente la camera d’alcova della regina Maria Amalia di Sassonia. In realtà la vicenda conoscitiva delle due versioni con Aurora e Titone è stretta alla storia critica degli altri due bozzetti, pure al Pio Monte, tradizionalmente definiti come la Gloria dei Principi e in passato fraintesi, ma che da tempo si sa pertinenti – all’interno della stessa campagna decorativa – alla volta della stanza contigua e seguente a quella della vestizione, cioè della stanza da letto ufficiale del re, detta del Belvedere, poi perduta (cfr. cat. III.1.122-123). In tal senso non era stato d’aiuto alla ricostruzione Giuseppe Sigismondo (1788-1789), che cita sì le volte dell’Aurora e del Belvedere come opere di De Mura, ma le riconduce in modo incongruo ai lavori per le nozze del 1738 tra Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia: lavori, questi ultimi, di cui resta del maestro il grande, famoso dipinto nella volta della Prima Anticamera con la celebrazione delle Virtù dei sovrani. È stato merito di Nicola Spinosa (in Civiltà del ’700 1979- 1980) l’aver aperto alla possibilità che le due coppie di bozzetti, già approssimate dal punto di stile, spettassero a un tempo ben successivo e andassero riferite – insieme – alle pitture di Palazzo Reale per Ferdinando IV.
Ciò detto, è più che mai utile riportare le osservazioni di coloro che tra gli ultimi riuscirono a vedere l’Aurora demuriana. Costanza Lorenzetti (1938) rilevò che essa non aveva “la vaghezza del colore” della volta con le Virtù di Carlo e di Maria Amalia, considerò pure l’invenzione meno convincente, ovvero “un più ammanierato componimento classicistico”, e ne sospettò perciò un’esecuzione seriore, “quando la decadenza era già inziata” (un dubbio già di Ceci 1933c). Felice De Filippis (1942) ne scrisse così: “La pittura trattata con fluidità di pennello e con abilità prospettica s’effonde in una colorazione di un biancore biaccoso sul quale staccano disarmonicamente crudi toni rossi e gialli”. Sono giudizi che – al di là del segno – sembrerebbero tradire un particolare stato di conservazione del dipinto, con l’eccessivo schiarimento delle tinte per effetto della calce (come non a caso notò già, alla fine del Settecento, Pietro Napoli Signorelli per le pitture del nuovo Sedil di Porto, poi distrutto: cfr. cat. III.1.115-116).
Alterati (quando non scomparsi) i contesti d’origine, è stata la ricerca d’archivio, e segnatamente lo spoglio dei carteggi epistolari, a fornire i dati chiarificatori e, di conseguenza, a gettare nuova luce sui bozzetti, unici testimoni figurativi superstiti. Fonte principalissima nella fattispecie si è rivelata la corrispondenza tra Domenico Cattaneo principe di San Nicandro, uno dei membri del Consiglio di Reggenza, e Carlo di Borbone, dal 1759 Carlo III di Spagna. Ma proviamo a riepilogare con ordine.
Nella prima metà del settimo decennio il San Nicandro, maggiordomo maggiore di Casa e precettore di Ferdinando, curava i rifacimenti dell’appartamento già vicereale, poi di Carlo, e frattanto passato al figlio e successore di questi sul trono di Napoli; e di ciò teneva informato lo stesso Carlo in Spagna, sottoponendogli le proprie iniziative e gli sviluppi del cantiere. Il 5 aprile 1763 il San Nicandro riferiva di aver fatto rimuovere, nella stanza adibita alla vestizione, la volta a canne, dove Nicola Maria Rossi (uscito anch’egli dalla scuola di Solimena) aveva dipinto una veduta della battaglia di Gaeta, affresco ormai malridotto; e di avervi quindi fatto costruire una nuova volta a centine di legno con cerchi (Ascione 2013). I candidati proposti dal mittente per dipingervi erano Giuseppe Bonito, Francesco De Mura, verso cui il San Nicandro sospettava una scarsa propensione di Carlo, e Corrado Giaquinto, che però si sapeva afflitto da guai di salute (Knight 2009). Il 26 aprile 1763 Carlo demandava all’interlocutore la scelta dell’artista, ma teneva a precisare di non avere nulla contro De Mura: anzi il re lo riteneva preferibile a Bonito nella pratica dell’affresco, ricordando di non essersene servito in passato nel Palazzo di Portici solo perché il pittore si trovava lontano, a Torino (Knight 2009; per questa lettera si veda già il commento di Ruotolo 2009). Il 17 maggio 1763 il San Nicandro riscriveva, procurandosi ovviamente di compiacere il sovrano, e rilanciava con una controproposta: De Mura avrebbe decorato dunque la volta della stanza riservata alla vestizione del re, e dall’esito si sarebbe giudicato se affidargli anche quella del Belvedere (Knight 2009). Ciò ottenne l’approvazione da Madrid. Il 6 settembre 1763, infine, il San Nicandro confermava a Carlo che, non appena la corte si fosse trasferita a Portici, cosa imminente, De Mura si sarebbe messo al lavoro (quest’ultima lettera è già pubblicata da Spinosa 1979). Precedentemente, forse in polemica per il ritardo dei lavori, Bernardo Tanucci in una sua lettera al medesimo Carlo, il 14 giugno 1763, aveva già scritto così: “La Casa Reale non ha prodotto altro che la pittura della volta dell’anticamera, ove V.M. si spogliava, data a fare a Franceschiello” (Tanucci 1763-1764; citato da Ascione 2013).
Quindi, il 18 febbraio 1766, il San Nicandro allegava a una sua lettera a Carlo una relazione sui recenti lavori, preparata ad hoc. Qui la stanza per la vestizione del re, che veniva dopo la Galleria (dove si esponevano i migliori dipinti delle raccolte regie), è dettagliata così: “Stanza ove Sua Maestà si veste, immediata alla nobile dell’alcova, detta del Belvedere; quale stanza si nomina dell’Aurora, poicché nella pittura della volta da Francesco De Mura il Carro dell’Aurora vi si rappresenta” (D’Alconzo 1999a; su questo punto va segnalata anche la successiva lezione del ‘titolo’ della raffigurazione, anch’essa plausibile nella coerenza di senso, che si trova in Knight 2009: “il levar dell’aurora”). È inoltre precisato che De Mura vi realizzò nei sovrapporta “quadri di puttini”.
Tra i viaggiatori stranieri si ricorda la testimonianza del Marchese di Sade (1996), il quale ammira – ed è fatto singolare per lui – l’opera di De Mura (“sono le cose migliori che io abbia visto di sua mano”), anche se scambia la raffigurazione nel soffitto per un Trionfo di Flora.
La datazione dell’affresco con l’Aurora, al quale collaborò il pittore specialista d’ornamenti Gaetano Magri, può essere ristretta al periodo che va dal settembre del 1763 – per l’appunto – all’inizio del 1764, quando il 19 febbraio è spiccato un pagamento di 1500 ducati a favore di De Mura. Tale compenso, emesso dietro una stima di Ferdinando Fuga, l’architetto responsabile dei restauri (Pane 1956), è stato connesso all’affresco in questione da Gino D’Alessio (1997), ipotesi poi confermata dalla documentazione prodotta da Paola D’Alconzo (1999a). Vi si riferisce inoltre una carta in uno dei faldoni demuriani nell’archivio storico del Pio Monte, datata 24 gennaio 1764, la quale informa dell’autorizzazione del re – tramite il San Nicandro – al pagamento dei 1500 ducati, cifra comprensiva dell’“oltramarino” usato nella volta dal pittore “di suo conto”, e di “tre quadretti di sua opera” (a noi tuttavia ignoti) che il re trovò di “totale aggradimento” (Autorizzazione pagamento De Mura 1764).
In mitologia Titone era l’eroe troiano di cui s’innamorò Eos, dea dell’aurora, la quale gli ottenne da Zeus l’immortalità, tralasciando però la richiesta della giovinezza perenne, per cui lui andò incontro al declino fisico della vecchiaia, sino a che non fu mutato in una cicala. Non dovrebbe essere arduo sostenere, dai bozzetti, che l’Aurora e Titone già a Palazzo Reale fosse uno dei capolavori dell’avanzata maturità di De Mura e del secondo Settecento napoletano; un esito incline a un aggiornato ed elegante orientamento internazionale, dal garbo sveltito e dalla freschezza ornata, in un impianto non meno memore di una tradizione di gusto classicista. L’artista studia la favola in due stesure, frutto della medesima invenzione: si sta facendo giorno, ed è insieme una schiusa primaverile, col suo corredo di rose. Il drappeggio che accoglie Titone è una quinta da teatro volante, a risolvere uno dei lati brevi della composizione, un tendone quasi spiegato dall’alito del carro in arrivo. Il grado di definizione della pittura sembra indicare uno stadio elaborativo non troppo dissimile nelle due versioni, anche se la tessitura coloristica in una è un po’ più calda, sfumata e avvolgente, nell’altra un po’ più lucida e smaltata. Le varianti principali tra i bozzetti – sottilmente narrative e prospettiche – riguardano la figura di Titone, ora (nel bozzetto col numero 118) già desto, ora (in quello col 119) in procinto di farlo; e la pariglia di destrieri, ora (nel primo caso) orientata verso di lui (ovvero all’‘esterno’ del dipinto, e quindi verso lo spettatore) e ora (nel secondo) più defilata, diretta all’‘interno’, verso il fondo dell’immagine, per una maggior percezione di profondità.
Per tali ragioni D’Alessio (1997) ha proposto che la versione portata a fresco fosse quella del bozzetto contrassegnato col numero 119, più adatta, a suo dire, a una resa di sottinsù. Quest’ipotesi si direbbe avvalorata dalla ricerca incrociata sugli inventari ottocenteschi dei quadri al Pio Monte: infatti nell’inventario di La Volpe e Guerra (1845) la tela col 119 è indicata quale “bozzo del quadro a fresco dipinto nella Regia di Napoli”, mentre il numero 118 è citato senza specificazioni. Tuttavia in una villa settecentesca a Pollena Trocchia (Villa Cappelli), in area vesuviana, c’è una volta decorata con la stessa raffigurazione di Aurora e Titone (cfr. Spinosa 1977; Rizzo 1978), riadattata in senso verticale, opera di un allievo di De Mura, dove viene ripreso il modello dell’altro bozzetto (118), come rivelano sia la posa di Titone sia l’andatura dei cavalli. [Augusto Russo]
Bibliografia*
Tanucci 1763-1764 [1997], I, p. 258; Sigismondo 1788-1789, II (1788), pp. 321-322; Ceci 1933c, pp. 7,17; La mostra della pittura napoletana 1938, p. 331, n. 19; Lorenzetti 1938, p. 191; De Filippis 1942, p. 61; Molajoli 1948, pp. 115-116, 120; Pane 1956, pp. 212-213; Causa 1970, pp. 111-112, nn. 106-107, tavv. XXXV-XXXVI; Leonetti Rodinò 1975, p. 17, nn. 11, 15; Rizzo 1978, p. 106; Spinosa 1977, p. 110, e fig. 23; Bologna 1979, p. 64 nota 14; N. Spinosa in Civiltà del ’700 1979-1980, I (1979), pp. 202-203, n. 95; Spinosa 1979, pp. 389-390 doc. 8; Spinosa 1986, p. 167, n. 281; M. Causa Picone, A. Porzio in Il Palazzo Reale di Napoli 1987, p. 68; Nolta 1989, p. 189; Il Pio Monte della Misericordia 1991, p. n.n. (ma 8); D’Alessio 1993, p. 81; Sade 1996, p. 266; Capobianco 1997, p. 50, fig. 34; D’Alessio 1997, pp. 198-199 nota 18; D’Alconzo 1999a, passim, pp. 166-168, fig. 2, p. 175 nota 32, , e pp. 171, 175 nota 31, e p. 176 nota 36; Guida rapida 2003, p. 19; Fiadino 2003; Spinosa 2003b, pp. 209-210; Auriemma, Gazzara 2008, pp. 30-31; Gazzara 2008a, pp. 172, 178 note 40, 47; Gazzara 2008b, pp. 225, 232; Knight 2009, II, pp. 501-502, 504, 520, III, p. 1086; Spinosa 2009, p. 42; Ruotolo 2009, p. 332; Porzio 2010, p. 62; Leonetti Rodinò 2012, pp. 54-55, 58, 90; Ascione 2013, pp. 73-75, 106-107 nota 59 , e p. 109 nota 106; Gazzara 2016, p. 58; Leonetti Rodinò 2016, p. 72; In the Light of Naples 2016, pp. 176-179, n. 36;
Lofano 2019, p. 193.
Atti e documenti*
Autorizzazione pagamento De Mura 1764, c. n.n.; inv. Spadetta 1782, c. 2r (Appendice II, 303, s.n.); inv. Palumbo 1782, c. 1r (Appendice II, 304, s.n.); inv. [Venuto 1783?], c. 3v (Appendice II, 305, s.n.); inv. Fischetti, Bardellino I 1783, c. 1r (Appendice II, 307, nn. 5-6); inv. Fischetti, Bardellino II 1783, c. 1r (Appendice II, 308, nn. 5-6); inv. Diana 1802, c. 10v (Appendice II, 309, nn. 118-119); inv. La Volpe, Guerra 1845, cc. 27v, 28r (Appendice II, 311, nn. 118- 119); inv. Simonetti 1851, c. 13v (Appendice II, 314, s.n.); Quadri rimasti invenduti 1884, c. 2v (Appendice II, 315, nn. 118-119); Elenco de’ quadri 1905, nn. 62-63, p. n.n. (ma 4); catalogazione post 1933, nn. 27-28.
Mostre*
La mostra della pittura napoletana 1938.
Restauri*
Arciprete 2005 [III.1.121]; Tatafiore 2006 [III.1.120].
Scheda tratta da: P. D’Alconzo, L.P. Rocco di Torrepadula (a cura di), Pio Monte della Misericordia. Il patrimonio storico e artistico, Napoli, Arte’m, 2020, vol. II, cat. nn. III.1.120, III.1.121, pp. 494-497 (consultabile online alla pagina https://www.francescodemura.unina.it/le-schede-delle-opere/aurora-e-titone/).
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*I rinvii alla bibliografia, ai documenti e ai restauri possono essere sciolti consultando le relative sezioni in P. D’Alconzo, L.P. Rocco di Torrepadula (a cura di), Pio Monte della Misericordia. Il patrimonio storico e artistico, Napoli, Arte’m, 2020.