Scena di terrore

Scena di terrore 
1755-1757 
olio su tela, cm 110 x 210 
provenienza: Napoli, eredità Francesco De Mura (1782) inv. Spadetta 1782: s.n.; inv. Palumbo 1782: s.n.; inv. [Venuto 1783?]: s.n.; inv. Fischetti, Bardellino I 1783: 108; inv. Fischetti, Bardellino II 1783: 108; inv. Diana 1802: 139; inv. La Volpe, Guerra 1845: 139; inv. Simonetti 1851: s.n.; inv. 2009-2010: 62; scheda OA: 15/00409999 

Scena di terrore 
1755-1757 
olio su tela, cm 110 x 210 
provenienza: Napoli, eredità Francesco De Mura (1782) inv. Spadetta 1782: s.n.; inv. Palumbo 1782: s.n.; inv. [Venuto 1783?]: s.n.; inv. Fischetti, Bardellino I 1783: 108; inv. Fischetti, Bardellino II 1783: 108; inv. Diana 1802: 138; inv. La Volpe, Guerra 1845: 138; inv. Simonetti 1851: s.n.; inv. 2009-2010: 63; scheda OA: 15/00409998 

Questi due smaglianti bozzetti, d’uguali dimensioni, e di per sé privi di specificazioni iconografiche, sono relativi alla decorazione di De Mura un tempo nella cupola del nuovo Sedil di Porto, detto anche di San Giuseppe, a Napoli, distrutto nell’Ottocento. In essi sono le scene di completamento del progetto figurativo, la cui immagine di riferimento, che dà significato al ciclo, svelandone il nucleo narrativo, è quella con San Gennaro che esce illeso dalla fornace (R. Causa in Mostra di bozzetti napoletani 1947; Causa 1970), da tempo conosciuta nel notevole bozzetto, in origine anch’esso pervenuto al Pio Monte e numerato 129 nell’inventario Diana del 1802, poi alienato nell’Ottocento, segnalato nel primo Novecento presso la collezione della Principessa di Gerace, e oggi conservato (dopo un passaggio da Colnaghi a Londra) nella Staatsgalerie Stuttgart (fig. 1) (Spinosa 1986; Spinosa 2003b; K. Fiorentino in Ritorno al Barocco 2009; Gazzara 2016; per il soggetto e la tradizione iconografica cfr. pure Leone de Castris 1997; Causa 2015, col richiamo al capolavoro di Ribera su rame nella Cappella del Tesoro di San Gennaro). Il quadro di Stoccarda, uguale in lunghezza ma un po’ più alto rispetto ai due in esame, recava un’attribuzione a Solimena quando fu pubblicato da Giulio Lorenzetti (1948, col titolo di Apoteosi di san Gennaro), prima che Ferdinando Bologna (1958) lo restituisse a De Mura come “opera caratteristica, e fra le più significative”. 

A differenza che nell’inventario Spadetta (1782), negli inventari Palumbo (1782) e Fischetti, Bardellino (1783) le tre tele – dato il loro rapporto solidale – sono giustamente elencate e apprezzate in un microblocco tematico-contestuale. In quelli di Fischetti e Bardellino, per esempio, esse sono citate come le “tre macchie del cupolino del Sedile di Porto in San Giuseppe Maggiore […] che rappresentano il Trasporto di san Gennaro alla fornace” (Ceci 1933c; Gazzara 2008a). Se da un lato la citazione inventariale è appena imprecisa riguardo all’episodio raffigurato – che vede il santo venir fuori sano e salvo dal fuoco, al cospetto della Santissima Trinità, anziché essere condotto al martirio –, dall’altro essa rende al modo più immediato il vincolo delle scene in funzione di una rappresentazione unica. Il dipinto ora a Stoccarda fu alienato più facilmente degli altri, è verosimile, proprio per la sua riconoscibile pregnanza tematica, tale da renderlo, nonostante la siffatta provenienza, un pezzo in sostanza autonomo per un acquirente. D’altro canto, nel successivo inventario Diana del 1802, il bozzetto principale col “San Gennaro nella fornace” si valutava 200 ducati, a fronte dei 20 per ciascuno dei due brani che integrano la storia: il che testimonia chiaramente la gerarchia tra i quadri avvertita nell’apprezzo. 

Benedetto Croce (1920) non si capacitava che non uno dei seggi (o sedili) di Napoli – gli edifici delle ‘piazze’ in cui era divisa l’amministrazione civica, e i cui rappresentanti erano gli Eletti della Città – fosse sopravvissuto integro. Il Seggio di Porto aveva avuto la sua storica sede presso San Giovanni Maggiore e via Mezzocannone, dove se ne conserva lo stemma (e dove la toponomastica ne serba il ricordo), ma essa risultava ormai troppo angusta quando si celebrava la festa della traslazione del sangue di san Gennaro. Nel 1742, come si ricorda in un’iscrizione pure conservata, avvenne il trasferimento in un’altra e più ampia sede, edificata ex novo presso le chiese di San Giuseppe Maggiore e di San Diego all’Ospedaletto. La periegetica del tempo ne dà menzione nelle aggiunte alla seconda edizione settecentesca delle Notizie di Carlo Celano (1758-1759): “Uscendo da questa chiesa [di San Diego all’Ospedaletto] a mano destra può osservarsi il nuovo Sedile di Porto; fatto col disegno del celebre architetto Antonio Cannevaro romano, in esso si ravvisano dipinte attorno l’imprese di tutte le famiglie che al presente godono in detto sedile; e si vede la cupola egregiamente dipinta dal nostro Francesco di Muro”. Il tema della pittura, incentrato sul santo protettore, era in linea con la connotazione civica di quello spazio. Più tardi Niccolò Carletti (1776) e Giuseppe Sigismondo (1788-1789) dicono l’edificio terminato nel 1748, attribuendolo a Mario Gioffredo. Oltre che da questi scrittori, dalla documentazione d’archivio emerge che in effetti sia Canevari che Gioffredo furono coinvolti nella fabbrica: il primo in funzione progettuale e il secondo con compiti più direttivi nel cantiere (come ricordava già G.B. Chiarini, curatore di Celano 1856-1860; cfr. ora il resoconto di Lenzo 2014). Nel 1758 un altro architetto, Giuseppe Astarita, fece la stima del lavoro di stuccatura realizzatovi da Giuseppe Scarola (De Falco 1999). Con prammatica del 1800 Ferdinando IV di Borbone abolì i seggi, e nel 1845 il nuovo Sedil di Porto fu distrutto per far posto ad altre fabbriche (Celano 1856-1860; Croce 1896). A esser più precisi, in uno degli inventari ottocenteschi di quadri al Pio Monte, quello di La Volpe e Guerra, che reca la data 14 febbraio 1845, si segnala che il Sedile è già demolito. L’aspetto esterno dell’edificio è noto da un paio d’incisioni d’epoca, come quella settecentesca pubblicata da Croce (1896), nella quale vediamo il tipo architettonico consueto per i seggi, a impianto quadrato e aperto da arcate, con una calotta (senza lanternino) a sesto ribassato; e quella ottocentesca, sempre segnalata da Croce, che illustra un numero de L’omnibus pittoresco (Piazza Medina 1838) qualche anno prima dell’abbattimento della struttura nell’allora piazza Medina. 

Riguardo alla cronologia dell’intervento di De Mura, Giuseppe Ceci (1933c) la circoscriveva al 1755-1757, segnalando la presenza di documentazione all’Archivio di Stato di Napoli: il pittore ottenne 1000 ducati, prezzo ritenuto non alto, se lui eseguì l’opera “senza interesse alcuno, contento di averne il merito da detto glorioso santo”. Esiste inoltre una polizza di banco, alla metà del 1757, che riferisce di un pagamento per il blu oltremarino da “ponere nelli panneggi torchini della pittura che egli stava facendo nella cupola”; colore che evidentemente, per il suo costo particolare, esorbitava dal compenso pattuito, comportando una spesa a parte di 50 ducati (quest’ultimo documento è segnalato nel suo contenuto essenziale in Guida 2014). 

Degna d’interesse, poi, la testimonianza oculare di Pietro Napoli Signorelli (1784-1786), che giudicò infelici le pitture del Sedil di Porto, ma non tanto per scadimento d’arte quanto “per difetto della calce”, ricordando anzi di averne visto nel 1779 in casa De Mura “la macchia in picciola tela” (forse il dipinto oggi a Stoccarda); la quale macchia, insieme alla tanta esperienza del pittore come frescante, provava che “il difetto non venne dal di lui pennello”. Giudizio ed episodio, questi, ribaditi dallo scrittore nella seconda edizione della sua opera all’inizio dell’Ottocento (Napoli Signorelli 1810-1811; parzialmente citato da Causa 1970). 

I nostri quadri indicano un momento ben maturo dell’arte di De Mura, schiarito e impreziosito e sciolto nella stesura. Andreina Griseri (1962) li citava, sia pur fugacemente, per affinità con un gruppo di bozzetti relativi ad alcuni dei lavori del pittore nel Palazzo Reale di Torino. Ma, prim’ancora, sul nuovo punto di stile scrisse benissimo Costanza Lorenzetti (1938): “Pittura rapida, immaginosa, distaccata dalle prime esperienze che non è esente da inflessioni stilistiche venezianeggianti. Una luminosa chiarità argentina si diffonde nelle ariose composizioni che sono da considerare esemplari del più raffinato Settecento napoletano”. La traccia veneziana, evocata dalla studiosa anche per la volta della Nunziatella (1751), non ha goduto di particolare fortuna nella critica: ma è pur vero che si trattava, in sostanza, di tentativi “per riallacciare i contatti della decorazione meridionale con la scena italiana coeva” (Causa 2013a). Dal canto suo la quadreria del Pio Monte, nell’allestimento attuale, dà tutto l’agio di confrontare quest’esito soleggiato e vario di colore con quelli ancora abbastanza ombrosi e carichi dei bozzetti relativi agli affreschi di San Nicola alla Carità (cat. III.1.92) e della tribuna della Nunziatella (cat. III.1.93), realizzati a cavaliere del 1730: e il confronto è reso particolarmente sincero, circa l’evoluzione stilistica del maestro, proprio perché avviene sul comune metro dei bozzetti, e dunque senza gli accomodamenti e gli accordi – dovuti anche a ragioni tecniche e di supporto – delle opere compiute in grande e per lo più a fresco. 

Altresì la coppia di tele in parola ci richiama di nuovo alle doti compositive e alle modalità operative di De Mura, acclarate del resto, e tuttavia qui restituiteci prettamente nella logica dei bozzetti, fatto tanto più significativo perché in rapporto a un contesto monumentale perduto. Se i tre pezzi relativi al Sedile fossero riuniti (come già auspicato da Gazzara 2008a) e disposti a fregio, si avrebbe una dimostrazione di una serie d’immagini che occorre pensare concatenate a cerchio, quando idealmente se ne proietti la stesura sulle superfici curve e circolari di una cupola. Nell’annodarsi ritmico e insieme calibratissimo dei gruppi di figure si presuppone l’andamento flessuoso, per così dirlo, e più o meno anulare, suggerito dall’intradosso.

A differenza della cupoletta di San Nicola alla Carità e della cupola di San Giuseppe dei Ruffi (che tra l’altro furono studiate in due parti anziché in tre: cfr. cat. III.1.92, 94-95), De Mura non dové raffigurare una vera e propria gloria nei cieli del Paradiso, dove le spire sono per lo più occupate da gruppi di santi armoniosamente assisi. Quindi il pittore escogitò, per i due terzi all’incirca dello spazio, un orizzonte dilatato, uno scenario di paesaggio con rocce e alberi, in cui le figure si agitano sgomente o sconcertate dalla miracolosa integrità di san Gennaro dopo il supplizio della fornace. Nessuno n’è escluso: cavalieri, donne, bambini, animali, tutti sovrastati da un’epifania clamorosa, potente come una scossa tellurica, e portatrice di una nuova umanità e di una nuova storia. Di qui il titolo convenzionale, che dové nascere dopo la separazione tra i pezzi, e con cui quelli in esame sono correntemente noti, di Scene di terrore. In realtà l’incertezza sull’iconografia si registra già in sede inventariale, a pochi anni dalla distruzione del Seggio, se nell’inventario Simonetti (1851) i due bozzetti sono detti genericamente “di Battaglie” (e si apprezzano peraltro per “la prontezza che vi si osserva tanto nel comporre che nell’eseguire, quantunque questi settecentisti hanno peccato un poco di maniera”). Ma la definizione di Terrore (volutamente mantenuta nel presente catalogo) premia meglio il fondo emotivo, da smarrimento diffuso, quasi arcano, che caratterizza queste immagini corali; immagini appropriate a esprimere – ove per assurdo fosse oscuro il nesso col ciclo dedicato al patrono di Napoli – le conseguenze terrene di un castigo divino, sotto forma di eleganti orchestrazioni ad argomento ridotto: tra panneggi, pose, affetti e trame d’assieme. Non per nulla la succitata Lorenzetti (1938) scrisse di “scene bibliche […] rappresentanti l’imminenza di un terrificante fenomeno celeste”. E su questa scia Vincenzo Rizzo (1980) ha parlato di “un concerto di movimenti equilibrati, che tuttavia esprimono l’angoscia incombente di un cataclisma”. 

Infine sono da rilevare, come al solito in De Mura, e ancor di più nelle imprese della maturità, il passaggio disinvolto e l’arrangiamento di spunti inventivi e compositivi da una raffigurazione all’altra. In tal caso il richiamo va, per esempio, alla scena con santa Chiara recante il Santissimo a sgominare i Saraceni, scena dipinta nel soffitto sopra l’altare maggiore di Santa Chiara a Napoli (Spinosa 1986), e nota dalle riproduzioni fotografiche anteriori all’incendio che nel 1943 devastò l’edificio (si veda in Rizzo 1980). La quale scena ha già a sua volta una sorta di doppio, più tardo e tuttora in situ, nella tela demuriana in San Francesco delle Monache ad Aversa. Altre analogie si riscontrano con la Battaglia (già creduta di Velletri e ora di Seminara) affrescata a Palazzo Marigliano, opera di De Mura in passato abbondantemente restaurata e recentemente riesaminata (Di Furia in c.d.s.[a]), che d’altra parte, come attestano i pagamenti, è coeva o di poco successiva alla decorazione del Sedile. [Augusto Russo] 

Bibliografia*
Celano 1758-1759, IV (1758), p. 47, V (1759), pp. 20-21; Carletti 1776, p. 91; Napoli Signorelli 1784-1786, V (1786), p. 544; Sigismondo 1788-1789, II (1788), p. 229; Napoli Signorelli 1810-1811, VI (1811), p. 311 e nota 1; Piazza Medina 1838, p. 193; Celano 1856-1860, IV (1859), p. 106; Croce 1896, pp. 66, 69; Croce 1920, p. 17; Ceci 1933c, pp. 12, 20; La mostra della pittura napoletana 1938, p. 330, n. 5; Lorenzetti 1938, pp. 192, 194; Lorenzetti 1942 [1948], p. LIII e tav. 1; Bologna 1958, p. 296; R. Causa in Mostra di bozzetti napoletani 1947, p. 56, nn. 55-56; La peinture italienne 1960, p. n.n., nn. 24-25; Griseri 1962, p. 39; Causa 1970, pp. 68,115-116, nn. 126-127, tavv. XLV-XLVI; Spinosa 1971, pp. 474, 533 nota 33; Leonetti Rodinò 1975, p. 21, nn. 54-55, tav. XXII; Rizzo 1980, p. 31 fig. 3, p. 37; Spinosa 1986, p. 161, n. 261, n. 258;  Nolta 1989, p. 193; Rizzo 1990a, p. 679; Il Pio Monte della Misericordia 1991, p. n.n. (ma 17); Capobianco 1997, p. 63, figg. 51, 53; Leone de Castris 1997, p. 75; De Falco 1999, p. 236 doc. 124, e p. 255; Guida rapida 2003, pp. 32-33; Spinosa 2003, p. 209 (e ill. a pp. 196-199); Unter dem Vesuv 2006, pp. 116-117, n. 33; Auriemma, Gazzara 2008, pp. 28-29; Gazzara 2008a, pp. 162, 175; Gazzara 2008b, p. 226; K. Fiorentino in Ritorno al Barocco 2009, I, p. 314, n. 1.174; Spinosa 2009, p. 39; Leonetti Rodinò 2012, pp. 56, 91; Causa 2013a, p. 168; Guida 2014, p. 394; Lenzo 2014, pp. 177- 178; Causa 2015, p. 98; Gazzara 2016, p. 58; Leonetti Rodinò 2016, p. 70; Lofano 2019, p. 199; Di Furia in c.d.s.[a]. 

Atti e documenti*
inv. Spadetta 1782, c. 15r (Appendice II, 303, s.n.); inv. Palumbo 1782, cc. 10rv (Appendice II, 304, s.n.); inv. [Venuto 1783?], c. 4v (Appendice II, 305, s.n.); inv. Fischetti, Bardellino I 1783, c. 7r (Appendice II, 307, n. 108); inv. Fischetti, Bardellino II 1783, c. 4v (Appendice II, 308, n. 108); inv. Diana 1802, c. 12r (Appendice II, 309, nn. 138-139); inv. La Volpe, Guerra 1845, c. 27v (Appendice II, nn. 138-139); inv. Simonetti 1851, c. 9v (Appendice II, 314, s.n.); Quadri rimasti invenduti 1884, c. 2v (Appendice II, 315, nn. 138-139); Elenco de’ quadri 1905, nn. 64-65, p. n.n. (ma 4); catalogazione 1925, n. 3; catalogazione post 1933, nn. 70, 76. 

Mostre*
La mostra della pittura napoletana 1938; Mostra di bozzetti napoletani 1947; La peinture italienne 1960; Unter dem Vesuv 2006. Ritorno al Barocco 2009. 

Restauri*
Arciprete 2006 [III.1.115]; Tatafiore 2006 [III.1.116].

Scheda tratta da: P. D’Alconzo, L.P. Rocco di Torrepadula (a cura di), Pio Monte della Misericordia. Il patrimonio storico e artistico, Napoli, Arte’m, 2020, vol. II, cat. nn. III.1.115, III.1.116, pp. 484-487 (consultabile online alla pagina https://www.francescodemura.unina.it/le-schede-delle-opere/scena-di-terrore/).

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*I rinvii alla bibliografia, ai documenti e ai restauri possono essere sciolti consultando le relative sezioni in P. D’Alconzo, L.P. Rocco di Torrepadula (a cura di), Pio Monte della Misericordia. Il patrimonio storico e artistico, Napoli, Arte’m, 2020.